00:00 6 Dicembre 2006

Filippine tra tifoni e vulcani, dove la natura si scatena

Un paradiso naturale come le Filippine, spesso muta in un teatro drammatico, dove vanno in scena le più temibili forze della natura.

Con i suoi circa 80 milioni di abitanti, disseminati in oltre 7.000 isole, le Filippine costituiscono uno dei paesi più densamente popolati e vivaci del sud-est asiatico. L’intera superficie è approssimativamente uguale a quella dell’Italia, ma molte delle isole più piccole (circa 5.000) sono disabitate. La maggior parte della popolazione si concentra in sterminate baraccopoli, a ridosso dei centri urbani; prima fra tutti la megalopoli di Manila, con i suoi quasi 15 milioni di abitanti.

Posizionata tra il Tropico del Cancro e l’Equatore, gode di un clima mite e umido tutto l’anno, con un periodo decisamente più piovoso, compreso tra aprile e novembre. L’intero arcipelago è inoltre costellato da un gran numero di vulcani, molti dei quali attivi, o addirittura in eruzione proprio in questi giorni. I terreni vulcanici, l’abbondanza di acqua e la mano dell’uomo, hanno reso queste isole un vero paradiso, florido e lussureggiante.

Ma il Paradiso, si sa, non è di questa terra. Di recente, come spesso accade nelle Filippine e non solo, le forze della natura si sono scatenate, e tra cielo e terra è cessata la pace. Durian, uno dei tifoni (termine asiatico omologo all’americano: uragano) più potenti degli ultimi decenni, ha seminato morte e distruzione su oltre 1/3 delle isole. Stimato di categoria 4, in base alla velocità dei venti e alla pressione minima raggiunta nell’occhio; è stato pari per potenza distruttiva al più famoso “Katrina”, quello che devastò New Orleans e il Golfo del Messico, alla fine dell’Agosto 2005.

Nelle Filippine però, le condizioni ambientali e geografiche non sono per niente simili a quelle degli Stati Uniti; un tifone di tale portata non poteva che provocare una catastrofe, prima di tutto umanitaria, quindi ambientale. Sul suo percorso ha infatti incontrato due vulcani in eruzione, il Mayon e il Taal. I depositi vulcanici recenti erano quindi, più che incoerenti e sovrapposti ad altri per spessori di decine o centinaia di metri. In queste zone le ceneri e i prodotti eruttivi di più vulcani si sommano infatti, in stratificazioni e depositi di notevole spessore. Non solo questi si adagiano sui fianchi dei vulcani che li hanno prodotti; ma molto spesso anche su quelli di vulcani vicini, più o meno attivi.

Tali depositi sono molto caotici e contengono grandi quantità di ceneri, mescolate alla rinfusa con materiale più grossolano, fino a veri e propri massi (le cosiddette bombe vulcaniche). Intercalati a questo tipo di depositi, non sono rare le colate laviche, decisamente più dure e compatte. Dal momento che la maggior parte di questi sedimenti derivano da cadute dall’alto, il loro accumulo ha dei limiti di pendenza molto elevati. In occasione di abbondanti precipitazioni, concentrate in poche ore, come quelle generate appunto dal passaggio di un tifone; l’acqua tende a mescolarsi con la parte cineritica, di per sè molto fine, creando i presupposti per imponenti colate di fango vulcanico.

Queste colate di fango vulcanico prendono il nome di “Lahar”, termine di origine indonesiana (altro luogo noto per questo tipo di fenomeni). Il movimento è rapido e devastante, proprio come quello visto tante volte in TV, in occasione di piene alluvionali o di valanghe e slavine. La differenza è che, date le pendenze e l’incoerenza del substrato, la forza e la velocità assumono proporzioni devastanti. Talvolta, quando ci sono eruzioni vulcaniche in corso, si originano dei flussi caldi, se non addirittura bollenti.

La densità di questi flussi fangosi è molto superiore a quella dell’acqua o della neve, per cui anche le parti più grossolane e massicce, come pietre e massi, alberi e detriti, comprese le abitazioni e le baracche, possono prendere parte alla colata in movimento. Ciò che non viene prese in carico, viene seppellito irrimediabilmente. Appena cessato il fenomeno, le speranze di trovare qualcuno in vita sono veramente esigue; quando il fango vulcanico poi comincia ad indurirsi, diviene praticamente impossibile tentare di estrarre qualsiasi cosa. In poche parole un lahar può essere considerato lo Tsunami della terraferma.

I lahar si possono verificare anche a distanza di anni dall’ultima eruzione di un vulcano, proprio come accadde a Sarno, Quindici e Bracigliano, nel maggio 1998. Allora furono i depositi vulcanici del Vesuvio, adagiatisi per secoli sui rilievi prospicienti, a mettersi in movimento rapido verso il basso, dopo essere stati appesantiti dalle intense precipitazioni. Un aiuto notevole lo dà la mano dell’uomo con la deforestazione, il modellamento artificiale dei versanti e il loro sfruttamento improprio (cave, terrazzamenti, canalizzazioni ecc.).

Nelle Filippine queste pratiche sono più che diffuse, anche lungo i versanti vulcanici, non esclusi quelli di vulcani attivi o quiescenti. La fame di superfici da dedicare alla coltivazione del riso o al pascolo, ha reso quei territori particolarmente vulnerabili a questo tipo di fenomeni. La deforestazione per uso interno ed esportazione di legname pregiato, ha fatto il resto. Durian ha quindi innescato migliaia di lahars su un territorio densamente abitato e decisamente impreparato.

Baraccopoli malsane e miriadi di anonimi villaggi sono stati quindi cancellati dalla furia degli elementi, prima ancora di essere iscritte in un degno registro demografico. Migliaia di vite coinvolte e ridotte in uno stato ben più grave della miseria, con un numero di vittime che non sarà mai calcolabile, così come sempre accadde nel nostro lontano terzo mondo. Ci vuole ben altro che un allarme Tsunami o una sirena per gli Uragani, laddove la tragedia è un fatto quotidiano. Ma noi siamo quelli dei bilanci, quelli che considerano ancora le Filippine come un paradiso; mentre laggiù l’inferno si è appena manifestato e per centinaia di migliaia di persone, tifone o lahar, la vita continua tra stenti e inconsapevolezza, con migliaia di morti da cercare, o forse solo da piangere.
Autore : Giuseppe Tito