00:00 13 Settembre 2002

Cumuli e cirri alle strette sull’incudine della ragione

Disquisizione sul linguaggio meteorologico.

Da quando la meteorologia si è affrancata dall’empirismo di un’osservazione soggettiva più o meno fantastica, per conoscere il rigore della scienza e pensionare le varie divinità tempestose a favore dei più asettici fronti caldi e freddi, le variabili della mutazione hanno investito in vario modo la rappresentazione linguistica dei fenomeni; da un lato, la modellizzazione matematica e il rigore descrittivo della fisica dell’atmosfera hanno tracciato una griglia efficace di rappresentazione di ciò che accade nell’invisibile.

Masse d’aria in movimento, temperatura, umidità sono concetti perfettamente a loro agio nell’astrazione del loro modello descrittivo; anche perché l’aleatorietà dell’invisibile qui è ridotta a numero, è un fattore misurabile, a portata almeno apparente di logica e di lingua (la famosa farfalla che si alza in volo in Giappone e provoca un uragano in Messico…).

Dall’altro, nel campo del visibile, forme e colori degli “oggetti” presenti nel cielo hanno sempre offerto una tenace resistenza alla rappresentazione linguistica; non è facile far entrare a forza le infinite variabili di un cielo di altocumuli e stratocumuli misti nei comparti linguistici di una catalogazione di forme predefinite; soccorrono, è vero, i colorati inventari degli atlanti delle nubi più minuziosi, ma a un certo punto, in un bel cielo di luglio, la domanda ritorna: “e quella lì cos’è?”

Talvolta soccorre l’eziologia: se un incudine temporalesca è evoluta in bande di “falsi cirri”, ecco che in questo caso la rappresentazione tiene conto di un processo ordinato nel tempo; salvo poi ammettere che, nonno cumulonembo o meno a monte, sempre di “quei” cirri si tratta, rosati, lamellati, uncinati, rosati, ecc., comunque irripetibili; e con uno spettro di variabili ben più ampio di quello che pone all’osservazione, ad esempio, più rasoterra, quell’esemplare di robinia o gatto selvatico…

Eppure l’approccio linguistico non demorde dalla sua vocazione inventaria, anzi, moltiplica il suo potenziale catalogo; con un viraggio interessante, negli ultimi anni, da una terminologia latina di sapore poeticamente metaforico (“incus”, “calvus”, “mammatus”) all’impatto un po’ aggressivo delle nuove accezioni anglosassoni; cosicché nelle meteodescrizioni più aggiornate in rete il “cumulus incus” genera “wall clouds”, il “cumulus fractus” svaria in “shell clouds”, in un impasto lessicale che rinvia, prima che alla precisione di ciò che intende descrivere, ad uno sfondo autoreferenziale di forme in continuo movimento-riassestamento, refrattarie (per fortuna) ad una parola definitiva che le racchiuda.

Anche per questo, forse, i fenomeni atmosferici più suggestivi ci hanno abituati ad un’osservazione silenziosa, a tu per tu col cielo, senza troppe intermediazioni di lingua e ragione…
Autore : Roberto Ranieri