
Riscaldamento Globale. Basta cliccare su un qualsiasi motore di ricerca queste due semplici parole per ottenere milioni di risultati. E infatti ormai, dopo anni di martellamento da parte dei media, tutti si sono fatti un'opinione personale di cosa sia il global warming.
Sono pochissime invece le persone che sanno quando questa teoria sia nata e come si sia evoluta fino ad affermarsi. Un processo lunghissimo, durato secoli e fatto di confronti accademici spesso feroci.
Potrebbe essere quindi interessante per il lettore sapere come sono andate veramente le cose, così come conoscere le luci e le ombre che hanno caratterizzato questo dibattito. Anche perché in pochi immaginerebbero che i primi sospetti di un intervento umano sul clima risalgono addirittura al IV° secolo avanti Cristo.
Scriveva Platone in uno dei suoi dialoghi più famosi, Crizia, che la regione dell’Attica era stata sistematicamente disboscata. Preoccupato per le conseguenze il celebre filosofo greco indossava le vesti dell’ambientalista ante litteram e denunciava che quelle terre erano state “spolpate e ridotte a uno scheletro”. E assicurava che la natura si sarebbe vendicata. Pochi anni dopo anche Teofrasto, pupillo del grande Aristotele, nei suoi trattati botanici puntava il dito contro il disboscamento. Secondo l’acuto osservatore greco infatti le radure che si creavano, colpite direttamente dal sole, portavano a un riscaldamento anomalo dell’aria. Ma non solo. Secondo il filosofo il drenaggio delle paludi rendeva le zone circostanti molto più suscettibili alle gelate invernali.
Nel 23 A.C. anche il famoso architetto romano Marco Vitruvio Pollione scrisse dell’impatto che l’uomo ha sulla natura. Annotò infatti nel suo trattato “De Architettura” che le caratteristiche di un edificio devono tenere assolutamente conto del microclima in cui verrà costruito. Per Vitruvio infatti l’architettura doveva “essere a imitazione della natura” e “una costruzione doveva inserirsi armoniosamente nell’ambiente naturale”.
Qualche anno più tardi l’agronomo Columella riprendendo le memorie del magistrato Saserna, nel suo “De agricoltura” sembrava parlare di un global warming in versione latina. Spiegava infatti con grande stupore che il nord Italia, zona in cui era prima impossibile per il gelo coltivare viti e olivi, si era riscaldata a tal punto da ospitare vigneti e oliveti in abbondanza.
Un secolo più tardi fu invece la volta di Plinio il vecchio. Il celebre studioso morto durante l’eruzione del Vesuvio accusò i propri contemporanei di “assistere con orgoglio da dominatori alla distruzione della natura”. Campanelli d’allarme che anche alcuni autori Medioevali e rinascimentali continuarono sporadicamente a far suonare ma senza fortuna.
La gente dell’epoca era però giustificata. Bisogna infatti ricordare che fino alla fine del XVIII° secolo nessuno aveva mai nemmeno sospettato che nel corso dei millenni la terra avesse sperimentato climi differenti.
La visione era quella data dalla sacra bibbia, con il mondo che secondo i teologi non doveva avere più di 6 mila anni. Ne sanno qualcosa personaggi come Giordano Bruno e Galileo Galilei. E anche Charles Darwin, nonostante l’illuminismo avesse già cambiato molte cose un secolo prima, si accorse che parlare liberamente di natura era ancora come bestemmiare.
Qualcosa cambiò invece con James Hutton, brillante geologo scozzese della fine del 700. Alcuni geologi avevano trovato per la prima volta tracce di antiche glaciazioni durante le loro ricerche. Lo scienziato di Edimburgo aveva quindi ipotizzato fasi climatiche cicliche e lunghe millenni. Teoria che prese il nome di Uniformitarismo e prevedeva che processi naturali che avevano operato nel passato fossero gli stessi che operavano nel presente.
Di intervento umano però non si parlava ancora esplicitamente. Infatti, come spiega Spencer Weart nel suo “The public and climate change. The discovery of global warming”, nessuno all’epoca credeva seriamente che l’uomo avesse la forza di influenzare la natura. Erano solo bizzarre teorie da discutersi al massimo in qualche salotto.
Tra il XVIII° e XIX° secolo però ampie zone della zona nord orientale degli Stati Uniti furono trasformate da foreste in zone coltivate. Un processo su amplissima scala che cominciò a mostrare chiaramente che l’intervento umano non solo poteva avere conseguenze, ma che queste potevano essere anche gravi. Gli osservatori dell’epoca notarono infatti cambiamenti nel clima, con alluvioni alternate a periodi di siccità più intensi e frequenti.