00:00 14 Agosto 2003

Il “febbrone” del pianeta

Sottoponiamo ai nostri lettori un articolo tratto dal Quotidiano "L'Arena di Verona" di venerdì 16 febbraio 2001 sui rischi ambientali dovuti al cambiamento climatico in atto.

La Terra ha la febbre, ha un febbrone che se curato male rischia di degenerare in una malattia inguaribile, con effetti catastrofici per tutti.
Subito lo scenario: se nel 1990 la temperatura media del pianeta era di 15,22 gradi, ad eccezione del 1991, l’anno successivo alla spaventosa eruzione del Pinatubo, tale temperatura ha sempre mostrato una tendenza all’aumento, fino ad arrivare a picchi di 15,68°C e di 15,70°C nel ’97 e nel ’98.

Sono scarti apparentemente minimi, ma nel bilancio finale della contabilità termica terrestre hanno un significato enorme.
Il 2000 è stato poi il sesto anno più caldo degli ultimi 120 anni (gli altri 5 sono tutti negli ultimi 15 anni); è stata misurata una temperatura media terrestre superiore di 0,39 gradi all’intera media degli ultimi 100 anni; considerando il solo emisfero settentrionale, tale differenza dalla media sale a 0,69° (dati del Noaa, National Oceanic and Atmospheric Administration).

L’aumento massimo è stato misurato in Europa!
È ormai certo che l’aumento della temperatura globale (0,7° gradi nella migliore delle ipotesi nei prossimi 50 anni) inasprirà il clima fino a provocare eventi meteo sempre più incontrollabili. Alluvioni catastrofiche, siccità bibliche, uragani spaventosi, cicloni tropicali (anche nel cuore del Mediterraneo), ondate di gelo e di caldo faranno sempre più parte delle prime pagine dei giornali, fino a diventare la principale calamità naturale del pianeta.

Mentre una parte del mondo andrà sott’acqua per il previsto innalzamento del livello di mari e oceani causato dall’abnorme scioglimento dei ghiacci polari, la maggiore energia intrappolata nell’atmosfera finirà per inasprire i processi di evaporazione e di precipitazione, rendendo più acuti e frequenti i fenomeni meteorologici più estremi.

Relativamente alla Valpadana, avremo quasi certamente piogge molto più intense di quelle attuali, l’Adige, il Po e i suoi affluenti emiliani faranno sempre più paura e in Polesine si inasprirà il fenomeno della risalita del mare nelle falde dell’entroterra, con conseguente peggioramento di un’agricoltura già provata dall’eccessiva salinità del suolo.

Per non parlare delle situazioni temporalesche estive, dove la grandine e le trombe d’aria raddoppieranno la loro frequenza.
Quasi uno scenario di guerra, insomma, tale da preoccupare tutti i delegati che una settimana fa hanno preso parte al vertice delle Nazioni Unite di Shanghai, dove i ricercatori dell’Ipcc (il gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici), hanno avvertito che l’atmosfera si sta riscaldando molto più in fretta di quanto gli stessi climatologi avessero fino ad oggi calcolato. Tutte le catastrofiche conseguenze dell’effetto serra saranno di conseguenza accelerate.

Dallo scioglimento della banchisa all’innalzamento del livello dei mari, dalle piogge alluvionali alle disastrose siccità nei luoghi più poveri del pianeta, tutto finirà per ricadere sulla salute economica e sociale degli abitanti della Terra.

Ma cerchiamo di capire cosa potrà accadere all’Italia da oggi all’anno 2.050. I modelli fisico-matematici più ottimisti (circa 50 su 100) lasciano intendere un sostanziale aumento delle temperature medie annue tra 0,5° e 1,3 gradi. A prima vista il dato non sembra tanto allarmante. Tale aumento provocherebbe però una regressione dei ghiacciai alpini di almeno il 25/30 per cento e nella peggiore delle ipotesi un aumento del livello del mare che circonda la penisola pari a circa 26/28 centimetri, quanto basta per distruggere ed esempio parte di Venezia, che già sprofonda di quasi mezzo millimetro all’anno per cause indipendenti dal clima.

Ma per gli scienziati riuniti a Shanghai, nei prossimi 100 anni le temperature medie globali dovrebbero risalire da un minimo di 1,4° a un massimo di 5,8 gradi centigradi. Di conseguenza, i ghiacci polari e di montagna si scioglieranno e il livello dei mari aumenterà da un minimo di 15 a un massimo di 90 cm. Le prime isole a sparire dalla faccia della Terra sarebbero le Maldive, le più basse del pianeta.

Una sorte destinata anche a vaste aree del Bangladesh, ai delta del fiume Azzurro e del fiume Giallo in Cina, del Nilo in Egitto e a molte isole ed atolli del Pacifico e della barriera corallina australiana, solo per citare alcune delle tantissime aree a rischio, determinando di conseguenza enormi migrazioni.

Rimedi da adottare? Per ora si brancola nel buio. Basta pensare al clamoroso fallimento della Conferenza mondiale sul clima dell’Aja nello scorso novembre. Per quanto complesso, il suo obiettivo era solo uno: rendere possibile l’applicazione del protocollo di Kyoto del 1997, volto a ridurre entro il 2008 le emissioni totali di anidride carbonica di almeno il 5 per cento rispetto ai livelli registrati negli anni ’90. Poca cosa, quindi, e secondo la maggior parte dei climatologi non certo sufficiente a frenare i terribili effetti globali dei cosiddetti «gas serra».

Ma quanto incidono le attività dell’uomo sul clima del pianeta. E soprattutto, il clima è realmente cambiato? Il riscaldamento, l’anidride carbonica, le polveri in sospensione, la giungla d’asfalto e l’inesauribile voglia di espansione della città hanno sicuramente modificato il microclima degli ultimi 50 anni, specie nelle città, ma se dovessimo estendere questo discorso su scala globale, non basterebbe un anno per leggere tutte le teorie e i fiumi di inchiostro fatti scorrere su questo argomento.

Rimane da capire se l’anomalo riscaldamento terrestre degli ultimi 30 anni sia da collegare al famigerato effetto serra o se si tratta piuttosto di una casualità ciclica. Non a caso, più di un climatologo ha ricordato che molti ghiacciai alpini nei primi anni Venti si presentavano ancor più arretrati rispetto ad oggi.

Taluni scienziati sostengono a tal proposito teorie opposte. Una di queste afferma che se l’aumento incontrollato della temperatura media provocasse lo scioglimento di parte dei ghiacci e un aumento dell’evaporazione nella tundra artica, si libererebbero enormi quantità di metano, potente gas «serra», formato dal carbonio presente al suolo. L’aumento termico risulterebbe quindi ancor più marcato. È infatti dimostrato che il 15 per cento di tutto il metano presente nel suolo si trova nei terreni ghiacciati della tundra. Un processo, questo, peraltro già in atto.

Ecco però una teoria in controtendenza con la precedente. Le analisi effettuate sui carotaggi di suolo prelevati nelle isole Aleutine al largo delle Alaska, dimostrano che in un terreno più asciutto l’emissione di gas metano diminuirebbe anziché aumentare, risultando in gran parte assorbito dai microorganismi presenti nel sottosuolo. La disputa continua? La temperatura aumenta.
Autore : Alessandro Azzoni