00:00 16 Settembre 2008

16 settembre 1999, storia di un nubifragio che mise in ginocchio l’Emilia

Fu un evento piuttosto localizzato ma di rara intensità e colpì in particolare alcuni piccoli paesi posti a cavallo delle province di Modena e Bologna.

Palata Pepoli di Crevalcore, piccolo borgo padano immerso nelle fertili campagne bolgnesi, salì quel giorno di metà settembre alla ribalta delle cronache per un evento meteorologico temporalesco di rara potenza e intensità. Senza spiegazione apparente intorno a mezzogiorno, quando l’anima agricola delle cascine si ritrova attorno alle tavole imbandite per il pranzo, il cielo divenne improvvisamente scuro e grandi gocce iniziarono a cadere risuonando con il loro tipico ticchettìo su tettoie e balconcini emanando dappertutto il gradevole profumo della pioggia di fine estate.

Ben presto però il rovescio, accompagnato ben presto anche da tuoni e fulmini, prese sempre più forza e iniziò a destare qualche preoccupazione. La sua intensità cresceva a dismisura finchè non divenne davvero eccezionale. La visibilità era ridotta a pochi metri e quello che si poteva vedere erano soltanto i rigurgiti fangosi che iniziavano ad invadere tutto, campagne, strade, cortili.

Il nubifragio proseguì con violenza inaudita fin dopo le 15, scaricando sulla zona valanghe d’acqua. Le Forze dell’Ordine, per quanto poterono, si precipitarono a bloccare le vie di accesso stradale: la viabilità fu infatti completamente sommersa da fiumi di fango melmoso e alcuni automobilisti rimasero intrappolati con le loro auto nell’inferno d’acqua.

La zona prese le sembianze di un unico grande lago, tutti i canali e le rogge esondarono e la situazione in poco tempo prese decisamente una piega gravemente alluvionale. Dopo tre ore ecco che la pioggia tendette ad attenuarsi fino a smettere. Il cielo quel giorno lasciò sul terreno ben 210 millimetri d’acqua in meno di tre ore.

Meteorologicamente parlando, il fenomeno fu causato da una serie di fattori concomitanti ma decisivo fu lo sviluppo di quella che è nota come “onda appenninica”. In sostanza la situazione vedeva un vortice depressionario collocato sulle isole Britanniche entro il quale era inserito un fronte freddo in procinto di attraversare il nord Italia. Le correnti in media troposfera erano dunque orientate da sud-ovest e dunque impegnate ad attraversare l’ostacolo appenninico.

Un minimo secondario centrato sul Tirreno centrale convogliava intanto aria calda e umida nei bassi strati da sud-est pescata dall’Adriatico. Il punto di convergenza tra le due masse d’aria si collocò sull’Emilia. Con l’approssimarsi del fronte (di per sè di debole intensità) penetrarono in quota i primi refoli di aria fresca che resero molto instabile la colonna d’aria.

La linea di convergenza acquistò dunque spessore e permise l’innesco della miccia che sviluppò rapidamente la prima striscia di cumulonembi. La sovrapposizione tra aria parzialmente fohenizzata proveniente dall’Appennino e quella molto umida di estrazione adriatica in basso instabilittò ulteriormente l’atmosfera la cui energia convettiva crebbe a dismisura alimentando la crescita di enormi cumulonembi.

L’intensità delle correnti convergenti sopra descritte fu praticamente identica pertanto i venti riuscirono a bilanciarsi tra loro trovando una sota di equilibrio dinamico, secondo i dettami della classica “onda appenninica” . Fu proprio questo a determinare la grave situazione di blocco che causò la stazionarietà della cellula temporalesca e dei rovinosi fenomeni ad essa associati.
Autore : Report di Luca Angelini