00:00 13 Aprile 2004

I batteri mangia-petrolio

Il rimedio forse più efficace nella lotta alle chiazze di petrolio viene da alcuni antichi batteri.

Quasi tutte le nostre attività industriali e non, sono petrolio-dipendenti. L’oro nero viene estratto e portato praticamente ovunque nel mondo. Eppure, se vediamo i mezzi con cui viene trasportato, c’è da mettersi le mani nei capelli! Navi spesso vecchie e fatiscenti, oleodotti con alcune perdite; tant’è che in certe sciagurate occasioni avviene il disastro… la petroliera incagliata a pochi metri da riva, la cisterna forata… milioni di tonnellate di greggio in mare e periodi drammatici per l’ecosistema locale.

Per salvare il salvabile vengono escogitati numerosi metodi: barriere galleggianti, incendio delle chiazze in mare, solventi chimici, ma il più delle volte è il duro lavoro di centinaia di volontari che ripuliscono con ogni mezzo le spiagge e i malcapitati animali incatramati.

Una tecnica molto promettente messa a punto negli istituti di ricerca di diverse nazioni europee, fra cui l’Italia, consiste in una vera e propria guerra batteriologica a questo nemico nero: si chiama “bioremediation” e consiste nell’impiego massiccio dei BIC, batteri idrocarburoclastici, che fanno del petrolio e dei suoi derivati l’elemento principale della loro dieta.

I loro nomi sono quasi impronunciabili: Alcanovirax, Oleiphilus, Oleispira e Thalassolituus. Non sono dei medicinali! Si tratta di microrganismi antichissimi che proliferavano milioni d’anni fa, quando la Terra era un mondo inospitale e nell’acqua erano disciolti numerosi veleni ed idrocarburi.

Sono sopravvissuti in buche sotterranee, spesso adiacenti a grandi giacimenti petroliferi ed oggi sono stati riscoperti e studiati. Il loro utilizzo è semplicissimo: si immettono nel tratto di mare interessato dalla chiazza di petrolio e in 10/15 giorni si moltiplicano a tal punto da divenire la popolazione batterica predominante. Crescono finché non hanno fagocitato tutto il petrolio a disposizione, biodegradandone i composti più recalcitranti, producendo biomassa autoctona, acqua e gas.

Una volta finito il loro compito, non avendo più cibo, questi batteri muoiono in pochi giorni non lasciando alcuna traccia di sé, se non un ecosistema fuori pericolo.

Il progetto è in fase di studio ma i vantaggi che si profilano sono enormi: i costi per la coltivazione della colonia batterica sono bassi e il rendimento è molto alto. Se in futuro vi saranno altri disastri del genere, avremo sicuramente quattro alleati in più.
Autore : Simone Maio