00:00 26 Maggio 2011

La linea di confluenza appenninica, questa sconosciuta

Termine tecnico che indica quella situazione foriera di diffusa attività temporalesca sulle zone interne peninsulari del nostro centro-sud. Da cosa si origina, come può evolvere, quali conseguenze può portare?

Argomento popolarmene scottante quanto fisicamente poco conosciuto ai più quello che descrive quel soggetto sinottico noto come "linea di confluenza di induzione orografica appenninica". Visto che il nostro Appennino ospita diversi milioni di persone, la domanda deve senz’altro trovare una adeguata risposta. Insomma di cosa si tratta?

Si tratta di un fenomeno che si può attivare in determinate condizioni, in prevalenza durante la stagione estiva, e che reca diffusa attività temporalesca lungo tutta la dorsale montuosa della nostra Penisola e sulle adiacenti zone pedemontane, apportando talvolta furiose grandinate, colpi di vento, violenta attività elettrica e, in casi estremi, anche ad alluvioni lampo.

Tutto si origina dalla presenza a tutte le quote atmosferiche di venti deboli inizialmente paralleli alla catena montuosa e in prevalenza disposti intorno nord-ovest. Il riscaldamento diurno tende ad attivare le brezze le quali, sovrapponendosi alle quote inferiori al debole vento sinottico visto poc’anzi, ne devia il flusso facendolo convergere verso la catena montuosa.

Lungo il versante tirrenico il flusso complessivo alle basse quote ruoterà quindi intorno ovest, mentre lungo quello adriatico ruoterà intorno nord-est. Va da sè che i due flussi, una volta raggiunta la sommità dei crinali appenninici, saranno costretti non solo a risalire ulteriormente in virtù della spinta ascensionale operata dai pendii montuosi, ma anche a causa dell’accumulo di massa prodotto dallo scontro dei venti provenienti da direzioni diverse.

A questo punto la macchina temporalesca è potenzialmente ben avviabile: le masse nuvolose cumuliformi vengono difatti ulteriormente elaborate dalla morfologia del territorio, con lo sviluppo delle celle che sembra sovrapporsi inizialmente ai gruppi montuosi più elevati (Monte Cimone, Sibillini, Gran Sasso, Simbruini, Matese, Pollino, Sila).

L’eventuale presenza di aria fresca in quota, piuttosto frequente quando i flussi procedono come descritto con direzione di provenienza nord-occidentale a tutte le quote, esalterà tale status e provoherà la propagazione a catena di tali cluster temporaleschi (fenomeno della rigenerazione) anche verso i settori preappenninici e talvolta anche sulle pianure adiacenti fino a sfociare su alcuni tratti costieri.

Qui le masse nuvolose però dovranno fare i conti con la fetta discendente della nostra struttura convettiva. L’accumulo di massa prima descritto provocherà divergenza in quota sulla verticale della cresta appenninica, divergenza che si renderà visibile con la distensione delle incudini temporalesche verso il mare dove poi le correnti inizierenno la loro discesa, provocando la dissoluzione del tessuto nuvoloso. A questo punto si avrà la classica impressione che le nuvole vengano letteralmente mangiate dal mare, in una sorta di braccio di ferro con il clima costruttivo della montagna che in questi casi sembra davvero così diverso.

Con questo la circolazione si chiude e la sua chiusura ci apre la mente su questo misconosciuto meccanismo che porta su molte delle nostre città i fenomeni più intensi e spettacolari che la natura ci possa riservare.

Autore : Luca Angelini