00:00 7 Novembre 2006

DA NON PERDERE: cosa bolle sotto l’Artico? Per “leggere” i cambiamenti climatici bisogna guardare anche nelle profondità oceaniche!

Al di sotto della calotta glaciale artica c’è una complessa struttura tettonica e vulcanica poco nota, tutta da studiare e… temere.

Quando per la prima volta ho visto le mappe geomorfologiche dei fondali oceanici, mi ha subito impressionato quel complesso sistema di cicatrici della crosta terrestre, note come dorsali medio-oceaniche. Una sorta di cuciture che tengono insieme le varie placche tettoniche e fanno somigliare la nostra terra ad una gigantesca palla da baseball.

Una di queste “cuciture”, forse la più nota, è la Dorsale Medio-Atlantica, che per oltre 25 mila km taglia in due il fondale dell’omonimo oceano. La sua propaggine più settentrionale, dopo aver attraversato l’Islanda, che della medesima dorsale ne è una sorta di gobba emersa, prosegue verso nord-est tra la Scandinavia e la Groenlandia. Corre poi ad ovest delle isole Svalbard (note anche come Spitzbergen), si proietta quindi nel Mar Glaciale Artico dove, due sue propagazioni: una meno attiva, la Lomonosov Ridge, e una più recente, la Gakkel Ridge, attraversano in parallelo il fondale, poco lontano dal Polo Nord geografico, in direzione SW-NE.

L’imponente struttura tettonica costituisce gran parte del margine, più o meno noto, tra la placca Eurasiatica e quella Nordamericana. Tale giuntura è completamente ricoperta dai ghiacci della banchisa polare, proprio dove questi raggiungono gli spessori maggiori e dove, almeno per ora, non arrivano mai a sciogliersi completamente.

L’intera Dorsale Medio-Atlantica, spaccatura tra le più attive della crosta terrestre, è costellata da una lunga serie di coni vulcanici, in gran parte sottomarini. Non mancano porzioni emerse, come già detto l’Islanda; ma anche centinaia di isole vulcaniche: dalle Azzorre a Sant’Elena, da Tristan da Cunha, alla neonata Surtsey (letteralmente – nata dalle acque – un’isola comparsa ex-novo al largo dell’Islanda nel 1963).

Come detto però, i coni vulcanici sottomarini sono numerosissimi, tra piccoli e grandi siamo nell’ordine delle migliaia. Uno di questi giace lungo la Lomonosov Ridge, a circa 1500m di profondità sotto la banchisa polare, oltre l’88° parallelo nord, ossia a poco meno di 200 km dal Polo nord; a circa 65°W, ossia ad un centinaio di km dalle coste settentrionali della Groenlandia. Tra il 21 e il 24 novembre del 1957 ha dato chiari segni di attività, con sciami sismici, movimenti della massa oceanica ed emissioni di anidride solforosa. Una stazione scientifica posta sul pack artico ha testimoniato la frattura della banchisa in più punti e la formazione temporanea di giganteschi icebergs.

Secondo studi recenti, alcuni depositi di ceneri e pomici vulcaniche, scoperti sulle coste dello Svalbard e datati seconda metà del ‘400 e prima metà del ‘700, potrebbero essere stati prodotti dall’attività eruttiva di questo vulcano, o di altri ancora poco noti o sconosciuti, comunque presenti al di sotto della banchisa polare.

Un altro paio di coni vulcanici sottomarini giacciono anch’essi a circa 200 km dal Polo Nord, ma in direzione delle Isole di Francesco Giuseppe, prossime alle coste della Siberia. Scoperti solo nel 1999, a circa 3800m di profondità, hanno già fornito chiari segni di attività. Diversi sciami sismici, sono stati registrati proprio tra il gennaio e il settembre di quell’anno.

A questo punto è lecito porsi alcuni interrogativi: cosa potrebbe succedere, se si verificasse una potente eruzione vulcanica, da questo o da altri coni vulcanici al di sotto della banchisa polare? E se si fosse già verificata in passato, quali conseguenze potrebbe aver avuto?

Grandi eruzioni in questa zona “calda” della crosta terrestre se ne verificano continuamente. Una delle ultime è quella avvenuta in Islanda tra il settembre e il novembre del 1996, quando una parte della piccola calotta glaciale che ricopre il vulcano Vatnajokull, si sciolse e si frammentò a seguito di una grande eruzione, generando una devastante colata di fango, ghiaccio e roccia che tagliò in due l’intera Islanda ed ancora oggi visibile dallo spazio. Uno degli eventi naturali più catastrofici degli ultimi decenni, per fortuna occorso in una regione completamente disabitata.

Se qualcosa del genere, o anche più potente, capitasse sotto la banchisa polare, quest’ultima o parte di essa potrebbe frammentarsi e sgretolarsi in migliaia di giganteschi icebergs che, sotto la spinta di un non meno probabile tsunami, potrebbero spingersi verso il nord-Atlantico, con conseguenze tutte da capire, soprattutto in relazione alle propaggini più settentrionali della Corrente del Golfo e della sua derivazione (la corrente di Irminger).

Che in passato sia successo qualcosa di simile, non è da escludere; ma purtroppo non è al momento possibile valutarne gli effetti, sebbene l’idea che l’intera banchisa polare possa essersi temporaneamente disgregata, non è cosa tanto incredibile, quanto vogliono far credere certi climatologi. Ricordiamo a questo proposito che la quantità di ghiaccio della banchisa polare è inferiore di oltre cinquanta volte, in volume, rispetto a quello della sola Groenlandia!

È ragionevole d’altronde ritenere che lo salute e lo stato della banchisa polare non dipendono soltanto da ciò che la sovrasta, ossia la libera atmosfera e il periodico irraggiamento solare; bensì anche da ciò che vi si nasconde nelle profondità oceaniche, al di sotto di essa. Il devastante tsunami del Natale 2003, verificatosi nell’Oceano Indiano, ci insegna quanto imprevedibili e sovrumane possono essere le manifestazioni della forza della natura.

Fonte dati: Global Volcanism Program, Smithsonian University.

Per approfondimenti sulle conseguenze di un’eruzione vulcanica islandese sul clima europeo: leggete APOCALISSE BIANCA di Alessio Grosso, edito da Mursia
Autore : Giuseppe Tito