00:00 1 Dicembre 2007

Ciclone in BANGLADESH: quello che non ci hanno detto…

Ancora una volta, la scorsa settimana, il Bangladesh è stato colpito da un ciclone che verosimilmente ha causato oltre diecimila decessi e costretto cinque milioni di persone ad abbandonare le proprie abitazioni. Analoghe calamità hanno più volte colpito il Paese nel passato. L’episodio più devastante risale al 1970, quando un’onda alta oltre sei metri sommerse Chittagong, uno dei maggiori centri urbani, provocando la morte di trecentomila persone ed oltre nove milioni di sfollati.

Per quanto grave, il bilancio della scorsa settimana è stato mitigato grazie alla costruzione lungo la baia del Bengala di rifugi, ove è riparata una parte della popolazione, e ad un sistema di allertamento, sebbene non tutti abbiano raccolto l’invito ad allontanarsi dalle zone a rischio pensando che si trattasse di un altro falso allarme dopo quello dello tsunami di due mesi or sono. Come prevedibile, non sono mancate le voci di coloro che hanno posto in relazione la tragica calamità naturale con il riscaldamento globale cui andrebbe attribuita la responsabilità di un aumento della frequenza e dell’intensità dei fenomeni naturali estremi.

Tali affermazioni sono in contrasto con quanto sostenuto in un recente documento dell’Organizzazione meteorologica mondiale, nel quale si può leggere che i parziali dati a disposizione sembrano indicare che non vi sia alcun significativo incremento della frequenza di cicloni tropicali e che la comunità scientifica risulta essere profondamente divisa in merito all’incremento dell’intensità dei fenomeni. Si aggiunge inoltre che nessun singolo fenomeno può essere posto in diretta relazione con il riscaldamento globale.

Ma, ancora più importante della possibile correlazione fra cambiamenti climatici e gravità di eventi estremi, risulta essere la valutazione delle conseguenze per l’umanità di tali fenomeni. E, sotto questo punto di vista, è fuori di dubbio che nello scorso secolo il mondo sia diventato un posto assai più sicuro rispetto al passato, come testimoniano i dati contenuti nel database curato, a partire da 1988, dal Centre for Research on the Epidemiology, che raccoglie i dati relativi ad oltre 12.800 disastri accaduti nel mondo a partire dal 1900.

Infatti, se si considerano tutti i fenomeni estremi potenzialmente correlati con il riscaldamento climatico (siccità, temperature estreme, inondazioni, tempeste di vento), si può constatare come tutti i decenni anteriori al 1970, con l’eccezione di quello compreso fra il 1910 ed il 1920, hanno fatto registrare un numero annuo di decessi superiore a centomila, con punte massime di quattrocentomila morti per anno fra il 1920 ed il 1940. Negli ultimi tre decenni del secolo scorso in media il numero di morti è stato intorno ai 50mila. Tali valori non riflettono peraltro nella sua interezza il miglioramento verificatosi in quanto, come noto, nel periodo considerato, la popolazione mondiale è cresciuta di quasi quattro volte passando da 1,5 a quasi 6 miliardi di persone: se teniamo conto di questo fattore, possiamo concludere che il rischio di perdere la vita a causa di un evento estremo tra il 1990 ed il 2000 era di venti volte inferiore rispetto alla prima metà del secolo ossia si era ridotto del 95%. Tale risultato è stato conseguito nonostante oggi sia molto maggiore rispetto al passato la quota di popolazione che vive in aree costiere che sono esposte a rischi assai più elevati.

C’è di peggio che essere indifferenti di fronte alle disgrazie altrui ed è approfittarne. Mentre in tutto il mondo le persone di buona volontà si mobilitano per soccorrere i bengalesi sopravvissuti al ciclone SIDR – un milione di famiglie colpite, quattro milioni di senza tetto – qualcuno, ad esempio, è corso a intervistare in Bangladesh tal Veena Khaleque, direttrice dell’organizzazione non governativa Practical Action, impegnata in campagne contro il cambiamento climatico e in assistenza ai paesi poveri danneggiati dal global warming di origine antropica.

Khaleque è autrice di un articolo intitolato “Il Bangladesh sta pagando un prezzo crudele per gli eccessi del mondo occidentale”, pubblicato nel 2006 dal quotidiano britannico “The Guardian”. Ovviamente, non ha dubbi sulle cause dei disastri naturali: “Le emissioni di gas dei paesi industrializzati hanno un forte impatto sui paesi in via di sviluppo e purtroppo fino ad ora per affrontare questa situazione abbiamo assistito solo a una lunga serie di promesse cui non hanno fatto seguito azioni concrete”.

Non si sa se davvero se sia in atto un processo irreversibile di riscaldamento del pianeta e, comunque, se così fosse, il fattore antropico sarebbe quasi irrilevante. Tuttavia da qualche anno i movimenti ecocatastrofisti attribuiscono a dei cambiamenti climatici di origine antropica fenomeni naturali che in realtà da sempre minacciano il genere umano, come dimostra proprio la storia del Bangladesh dove, a memoria d’uomo, la stagione delle piogge – da aprile a maggio e poi da settembre a novembre – porta sempre inondazioni dagli effetti più o meno devastanti.
Prima di questa, la peggiore si è verificata nel 1998, quando due terzi del territorio nazionale furono sommersi dall’acqua e 21 milioni di persone rimasero senza tetto. Prima ancora, c’è stata l’inondazione del 1991, che provocò 143.000 vittime e privò di casa e risorse 10 milioni di persone, e, risalendo nel tempo, si arriva a quella del lontano 1970, anno in cui le vittime delle piogge furono da 300.000 a 500.000.

Ma evidentemente chi ha per missione di combattere l’Occidente su qualsiasi fronte possibile non si ferma di fronte ai fatti. Tanto meno si sofferma a domandarsi – cosa che sarebbe assai più utile – quanto il governo bengalese avrebbe potuto fare per evitare sciagure del genere. Eppure è noto che il Bangladesh è uno dei paesi più corrotti del mondo. L’ultima classifica pubblicata da Transparency International, l’organizzazione che combatte la corruzione monitorandone la diffusione, lo colloca al 162esimo posto su 179 stati considerati. Non per niente quasi metà degli abitanti del Bangladesh, nonostante le discrete performance economiche degli ultimi anni, vivono sotto la soglia della povertà e per questo sono inermi di fronte ai fenomeni atmosferici estremi i cui effetti altrove vengono contenuti.

Altro elemento che non deve poi essere trascurato è il fatto che il rischio correlato ad eventi estremi è molto piccolo se paragonato alle altre cause di morte. Se ogni anno perdono in media la vita cinquantamila persone a causa di eventi estremi, di gran lunga maggiore è il numero di persone che muoiono a causa di malattie quali la tubercolosi (1,5 milioni), l’AIDS (2,8 milioni), la malaria (1,3 milioni), le infezioni respiratorie (4 milioni) e le deficienze nutrizionali (500mila).

Tenuto conto del fatto che, nell’ipotesi peggiore, solo una piccola percentuale dei decessi causati da eventi estremi è potenzialmente riconducibile al riscaldamento globale e poiché, quali che siano le azioni messe in atto per ridurre le emissioni di gas serra, non vi saranno ricadute apprezzabili per molti decenni, risulta evidente come sia del tutto fuorviante considerare il cambiamento climatico il problema al quale oggi deve essere data priorità.

Come ha più volte sottolineato Bjorn Lomborg, se il nostro obiettivo è quello di migliorare “lo stato di salute del pianeta”, sarebbe preferibile destinare le risorse disponibili per porre rimedio a problemi di gran lunga più gravi rispetto al clima ma che, spesso, tali non ci sembrano perché meno “spettacolari”. E, anche limitandosi all’ambito, pur non prioritario, degli eventi estremi, azioni volte a migliorare la capacità previsiva ed a limitarne le conseguenze negative oltre che a favorire la crescita economica sono, perlomeno nel medio periodo, di gran lunga più efficaci di quelle che si pongono l’ obiettivo della riduzione dell’eventuale impatto dell’uomo.

Come abbiamo visto, grazie allo sviluppo economico e all’accresciuto bagaglio delle nostre conoscenze scientifiche, nei Paesi sviluppati siamo oggi in grado di difenderci dalle bizzarrie della natura molto meglio che in passato. Se il ciclone Sidr avesse colpito la Florida e non il Bangladesh, le conseguenze sarebbero state di gran lunga più limitate. Non c’è mai stato un clima “buono”: se anche si dimostrasse che con le nostre emissioni lo abbiamo reso un po’ più turbolento, visti i risultati conseguiti, possiamo concludere che ne è valsa la pena. Un mondo ricco e caldo è senza dubbio migliore di uno povero e freddo.
Autore : Anna Bono e Francesco Ramella, report e sintesi di Alessio Grosso