00:00 16 Febbraio 2015

I modelli climatici funzionano veramente?

I comuni modelli di previsione della variazione della temperatura globale, anche se imperfetti e migliorabili, sono comunque concepiti per un target di lungo periodo e non di pochi anni.

Il recente rallentamento del tasso di riscaldamento globale, definito anche “iato”, costituisce un fatto osservativo apparentemente in disaccordo, anche se parziale, con le proiezioni modellistiche correnti.

Nel periodo che va dal 2002 al 2013, infatti, dopo oltre un ventennio di crescita pressochè continua, le temperature medie globali si sono effettivamente stabilizzate. Tuttavia, c’è da dire, che il verificarsi di brevi periodi di stasi delle temperature globali all’interno di un trend di lungo periodo orientato invece alla crescita, dal punto di vista scientifico, non costituisce né un fatto nuovo, né una contraddizione fondamentale, ed è bene ricordare che, oltre alla temperatura, esistono molti altri parametri e indicatori climatici importanti, per valutare correttamente e complessivamente lo stato termodinamico reale del nostro pianeta.

Il 2014, invece, ha fatto segnare un nuovo record di anomalia positiva, sia a livello globale che in Italia, per esempio. A differenza però di altri anni particolarmente “caldi”, come il 1998, il 2005 o il 2010, che avevano subito le conseguenze di concomitanti episodi di “El Nino”, questa volta, e ciò costituisce fattore di preoccupazione, il picco si è verificato nonostante l’indice ENSO si sia mantenuto sostanzialmente neutro.

Ma arriviamo ai modelli. Gli scienziati del clima, non avendo a disposizione un sistema Terra riproducibile in laboratorio, sono spesso “costretti” a condurre esperimenti virtuali e simulazioni al calcolatore, senza per questo entrare in contraddizione con il metodo galileiano.

L’enorme complessità del sistema climatico ci propone un grande numero di processi dinamici che agiscono su diverse scale spaziali e temporali e questo ha portato, per necessità, allo sviluppo di un ampio spettro di approcci modellistici differenti. Forse sarebbe il caso di cominciare a parlare di metodo post-galileiano, visto che si tratta di una modalità di approccio scientifico oramai condivisa da molte discipline. I modelli climatici, quindi, sono strumenti indispensabili e insostituibili in climatologia e, quasi sempre, nascono e si sviluppano con l’intento di elaborare proiezioni sui cambiamenti climatici di lunga gittata.

Ci si pone il problema di cercare di prevedere di quanto potrà cambiare la temperatura media globale da qui a fine secolo, per esempio. Quindi, se da questi modelli ci aspettiamo, erroneamente, una precisione infallibile sul dettaglio anziché sulla sostanza, per esempio pretendendo una previsione accurata della variazione di temperatura all’interno di un decennio, allora sì, si può dire che in questo caso i risultati non sono stati soddisfacenti.

Ma non è questa la finalità di questo tipo di modelli climatici, non è loro compito cogliere l’impredicibile variabilità interannuale o di microperiodo del sistema. E se certamente i limiti esistono e sono evidenti, c’è anche da dire che negli ultimi anni, sono stati fatti passi da gigante sia in termini di conoscenza di base, che di disponibilità di dati significativi e grado di completezza dei modelli.

Oltre a quelli standard (Global Climate Models-GCM), infatti, sono stati recentemente sviluppati anche i promettenti modelli a reti neurali e introdotte altre metodologie di analisi da utilizzarsi per le prove di “attribution” sulle cause dei cambiamenti climatici come per esempio un interessante approccio, importato dall’econometria, che si chiama metodo di causalità di Granger. 

La scienza del clima, infatti, oltre che a considerare il ruolo della CO2 antropica e degli altri gas ad effetto serra, in realtà, studia e sperimenta di continuo anche l’entità e il peso specifico nel sistema, di tutte le altre possibili cause che possono intervenire sui cambiamenti climatici di breve o lungo periodo, come la variazione dell’attività solare, le dinamiche degli aerosol naturali (eruzioni vulcaniche) e antropogenici, il ciclo idrogeologico, la variabilità interna del clima legata principalmente alle fluttuazioni degli indici PDO (Pacific Decadal Oscillation), ENSO (El Nino Southern Oscillation), AO (Artic Oscillation) e AMO (Atlantic Multidecadal Oscillation), producendo in merito un’ampia letteratura specialistica.

Tuttavia, al momento, lo studio dell’evoluzione del sistema clima, condotto utilizzando diversi sistemi di approccio e diverse metodologie scientifiche di indagine, sta producendo scenari sostanzialmente molto simili tra di loro, e che tendono ad attribuire alle forzanti antropogeniche ancora un peso importante e significativo rispetto agli altri fattori, sia in termini di probabilità di un futuro aumento delle temperature medie globali sul lungo periodo, sia come causa principale del riscaldamento globale recente.
 

Autore : Fabio Vomiero