00:00 1 Marzo 2005

DOSSIER: quale futuro per il TURISMO ALPINO?

Visita nelle vallate alpine.

Stai osservando uno stambecco con il binocolo e ti accorgi che si sta avvicinando. Nel silenzio, rotto solo dal rimbalzo meccanico dei seggiolini in transito sui piloni del vicino impianto di risalita, rimani appartato dietro ad un abete e aspetti la mossa successiva.

Siamo nel pomeriggio avanzato, nessuno sciatore dovrebbe passare di lì e invece…”Flaviooooo, vieni di qui, è bellissima sta pista, vado a uovo fino in fondooooo!!!”
E giù un urlaccio da far invidia all’Uomo delle Nevi.
Risultato: lo stambecco si è dileguato. Ecco il turismo alpino che piace sempre meno, quello di massa che non dialoga con la natura, che considera la neve come la materia prima per sfogare la propria voglia di estremo. E ci si interroga se lo snowboard non debba avere una pista riservata, se è opportuno ampliare ancora di più il numero di piste, se offrire nuove attività per contrastare le vantaggiose proposte d’agenzia nei Paesi esotici a prezzi stracciati.

E allora ecco la smania di organizzare la giornata del turista in modo ossessivo: si parte con la sciata classica, poi c’è la gara, la randonnée, cioè la passeggiata con le racchette da neve, poi il corso di snowboard, lo sci sulle gobbe, la corsa con la slitta trainata dagli Husky o con la motoslitta, il brindisi con il vin brulé, la fiaccolata, lo shopping, la discoteca. Insomma c’è sempre la voglia di vedere una montagna per i giovani, quei giovani, non tutti per la verità, che se l’offerta è insufficiente, se nel paese non c’è vita, vanno altrove, preferiscono le mete calde e così in montagna si ritrovano gli anziani o le famiglie con bambini, o coppie senza figli che adorerebbero tanto poter disporre della propria giornata senza i ritmi frenetici che già impone la vita quotidiana a valle.

Sembra che la montagna così com’è: selvaggia, affascinante, misteriosa, non attiri più, bisogna “drogarla” per renderla più invitante. Come dare torto agli operatori turistici che devono far quadrare i bilanci? Ecco allora gli impianti di innevamento artificiale, e si lavora sodo da novembre, se il tempo aiuta, per preparare le piste. Spesso si omette di segnalare la presenza di qualche sasso o di lastre di ghiaccio pur di invogliare il turista. La località montana invernale è sempre più tecnologica, si fanno le metropolitane per portarti direttamente sulla pista e sfoggiare la super tuta multicolore, il lucida labbra, la fascia firmata e gli occhialini aerodinamici; il viale principale è una via dei Condotti con in più l’optional della neve.

Il turismo estivo sembrava dovesse essere battuto dalla forte concorrenza delle spiagge, sempre più attrezzate e pubblicizzate, invece i vari enti-locali, le aziende autonome, le proloco, hanno svolto un valore di recupero della preziosa indentità delle rispettive valli, approntando manualetti con le carte dei sentieri, notizie geografiche, climatiche, culturali e di costume e informando con garbo il villeggiante sulle varie manifestazioni in programma. Insomma sembra che l’estate restituisca la vera montagna, mentre quella invernale cancelli la propria identità.

Non tutte le stazioni turistiche hanno poi hanno le stesse possibilità, non dimentichiamoci che in molte zone la montagna è stata abbandonata. Il primo esempio in tal senso ci viene dal basso Piemonte: ad eccezione di Limone Piemonte, stazione vicina al Colle di Tenda, tutte le altre località hanno una scarsa propensione al turismo. Sembra che la Val Maira e la Val Varaita abbiano la possibilità di emergere da un certo anonimato ma l’opinione non è condivisa nel settore.
Incredibile invece lo sfruttamento della Val Susa che presenta ben 25.000 seconde case, quasi l’85 per cento del totale delle abitazioni: la classica valle che ha perso l’identità culturale montana per sposare quella cittadina.

La Valle d’Aosta offre panorami eccezionali ma non sempre l’offerta turistica e l’edilizia risulta all’altezza delle richieste.
Un discorso a sè meritano sicuramente Alagna e Macugnaga, in cui fortunatamente la natura del terreno ha impedito la proliferazione di casermoni ripugnanti e un dilatarsi a dismisura degli impianti di sci. Qui la gente ritrova la natura vera e il silenzio che cercava.

La Valtellina si sta avvicinando ad un turismo internazionale, Livigno ha fatto passi da gigante, senza peraltro snaturare la sua natura di borgo montano d’altri tempi, un vero piccolo Tibet. Qui l’edilizia lombarda sta lasciando il posto a quella in stile altoatesino, anche Bormio è cresciuta, la vecchia Milano montana regge benissimo sugli impianti in alta quota, peccato in valle ci sia sempre poca neve.

La bergamasca non riesce a valorizzare l’immensa potenzialità che avrebbe, il turismo qui si rivolge ad un ceto medio, non elitario. Bei borghi: Serina, Selvino, Foppolo ma anche qui le risorse economiche non permettono una rivoluzione e le seconde case hanno distrutto l’identità del territorio con l’idea “del cambio aria la domenica a un’ora dalla città”, peccato che poi oggi per tornare a casa ci si mettano anche due ore e mezza con code interminabili ogni domenica.

In Alto Adige invece un ambiente naturale eccezionale, servizi accurati, alberghi raffinati, una clientela selezionata, poco spazio per l’edilizia incontrollata, hanno reso queste zone le più gettonate dell’arco alpino. Grossi passi avanti hanno fatto anche il Bellunese ed il Cadore. Mediocre invece la situazione della Carnia, dove lo spopolamento e la povertà, oltre alle scarse risorse economiche, ne rendono incerto il futuro turistico. E sarebbe un peccato, vista la straordinaria bellezza di queste zone.

In definitiva per riapprezzare le nostre Alpi dobbiamo prima educare ad amare la montagna, non per le svariate attività che ivi si possono svolgere, ma per come Dio l’ha creata, per la sua unicità. Ricreare ambienti cittadini in quota significa assassinarla, sarebbe stupido però negare l’importanza dell’attività sciistica, troviamo dunque un giusto equilibrio e uno sviluppo sostenibile.
Autore : Alessio Grosso